giovedì 14 agosto 2014

Il giocatore di basket

C'era una volta un giocatore di basket non molto alto, anzi piuttosto basso, anzi piccolo piccolo. Molti si chiedevano perché avesse deciso di giocare a basket invece di fare il fantino o il tuffatore. La risposta era semplice: lui amava il basket più di qualsiasi altro sport. Il rumore tipico della palla che si infila nella retina del canestro senza neanche sfiorare il cerchio, lo rendeva felice. Nella sua immaginazione il suo nome sarebbe finito presto tra le stelle dei giocatori del più importante campionato del mondo: NBA. Il suo nome di origine russa, non era esattamente il nome che ci si aspetta per un giocatore di basket: Nanori Tapposky (conosciuto da tutti con il soprannome di "Tappo").


Un pomeriggio, mentre giocava al solito campetto vicino alla scuola, arrivarono tre ragazzi con la canottiera dei Lackers e i bragoni abbondanti dai quali uscivano gambe lunghe e muscolose. Erano tutti e tre altissimi, due neri e uno bianco. Rendendosi conto che il campetto aveva un solo canestro e che in tre non avrebbero potuto fare due squadre, si guardarono attorno per cercare un quarto giocatore. Guardandosi attorno a se non videro nessuno fino a quando uno dei tre abbassò lo sguardo e vide Nanori. I tre si guardarono tra loro e dopo un po' di sguardi incerti e delusi, chiesero a Nanori se voleva giocare. Nanori eccitatissimo disse subito di sì con la testa perché non aveva più saliva in bocca ed era talmente eccitato che le gambette stavano già cominciando a muoversi da sole.
Iniziò la partita. Il compagno di Nanori, come gli altri due era alto almeno due metri. Nanori era circa la metà ma era come non se ne fosse reso conto. Appena riusciva a prendere la palla cercava di andare a canestro oppure di tirare trovando sempre un muro alto due metri davanti che gli impediva di fare canestro. Il suo compagno di squadra sbuffava e scuoteva la testa, sconsolato.

Nanori era agitatissimo e più si agitava tentando di superare il muro dei suoi avversari e meno ci riusciva. Stava facendo perdere la partita alla sua squadra.
Nanori era piccolo ma per nulla stupido così cercò di capire che cosa fare per migliorare la situazione. Per quanto fosse veloce non riusciva ad arrivare a canestro prima che gli avversari gli si mettessero davanti. Eppure lui era agitatissimo e velocissimo, nessuno poteva essere più veloce di lui, tranne... Ma certo! La palla!
Così decise prima di tutto di calmarsi e ragionare guardando dove si trovava Il proprio compagno e tutte le volte che aveva la palla in mano, osservava bene i movimenti del compagno passando la palla a lui con precisione e velocità. Il compagno alto e molto agile riusciva quasi sempre a superare la difesa avversaria andando a canestro. Quel suono magnifico della palla che si tuffa nella retina del canestro si fece sentire sempre più spesso. Nanori era felice. Vinsero di poco e il "Tappo" capì finalmente che con calma, precisione e velocità si possono fare grandi cose. Da allora nessuno lo chiamò più "Tappo" ma semplicemente Nanori. Non giocò mai in una squadra dell'NBA ma quel suono celestiale della palla che entra nel canestro senza toccare il cerchio, lo sentì tante e tante volte rendendolo felice.

giovedì 15 maggio 2014

L'arte dei sogni

- Sbloccati! Urlò Tazio Paracarro a Carlo.
Detto da lui suonava alquanto strano conoscendo Tazio, fermo che più fermo non si può, lì piantato per terra inamovibile. Tazio Paracarro era stato creato da Carlo e quando l'aveva immaginato, lo aveva pensato proprio così, fermo e immobile di fronte a qualsiasi cambiamento, a qualsiasi passaggio di cose o persone.


Carlo, senza sapere perché e per come, si era ritrovato "artista". Dal vocabolario: "chi opera nel campo dell'arte come creatore o come interprete". Senza dubbio lui è un creatore perché non ha la più pallida idea di cosa sia l'arte, quindi non saprebbe certo interpretarne forme e concetti. D'altra parte, Tazio Paracarro è indubbiamente un'opera d'arte: nessuno ne sentiva la necessità ma eccolo lì; tutti lo osservano anche solo per capire il motivo della sua esistenza ma nessuno sa attribuirne un significato e tutti ne parlano. Così come Rosmunda Mutanda, timida e poco appariscente ma allo stesso tempo così intrigante e maliziosa. Al contrario di Tazio, una bandierina al vento, un panno appeso al filo del bucato, sempre a seguire il vento, le mode, le tendenze, la convenienza. Nessuna convinzione personale, opinione irremovibile.

Carlo stava soffrendo di quel male di cui molti artisti soffrono: "il blocco creativo", che tradotto significa che non produceva nulla di interessante.. che lo interessasse. E dire che la sua produzione è sempre stata notevole, a partire da Ramato Brunetta, che sarebbe dovuta essere una splendida ragazza dai capelli scuri con riflessi ramati e in realtà gli è uscito una nano deforme e antipatico come una merda, ma era il primo, non aveva ancora molta esperienza. Poi ci fu la fase di sperimentazione pura con Peppe Trillo: tentativo di rivoluzionare il vecchio concetto di "bene comune" svegliando le coscienze delle persone come solo il trillo di una sveglia saprebbe fare o come un acuto di una tromba che suona la carica. Anche in questo caso il risultato fu un po' deludente perché gli uscì una sorta di gnomo barbuto urlante e fastidioso per alcuni e totalmente inutile ai molti.

Ora però non riusciva ad immaginare più nulla. Tazio Paracarro ne aveva un gran bisogno che Carlo creasse qualcuno che gli potesse passare davanti, fosse anche solo un cane che gli pisciasse addosso per sentire un po' di calore. Lui sempre lì fermo, piantato sulle proprie convinzioni, ora vacillava, aveva paura semplicemente di rimanere da solo.
- Sbloccati Carlo! Fai qualche cosa! Scendi dal letto! Vieni a fare colazione che è tardi! ...

- Cavolo! Ma che sogno ho fatto?!
Carlo pensava mentre a fatica e barcollando stava entrando in cucina.
- Se non ti muovi farai tardi a scuola! - Sua madre con un bacio ad accoglierlo in cucina mentre la voce dalla radio commentava di quanto l'Italia fosse bloccata dalla crisi.
- Mamma, pensavo che da grande potrei fare l'artista.
- Mi sa che se andiamo avanti così, non ti rimane molto altro da fare, sentita la radio? Qui è tutto fermo, immobile.
- Come Tazio Paracarro... - dice Carlo osservando la superficie del caffè e latte.
- Come chi? - chiede la mamma di Carlo.
- No, nessuno.. Ciao ma', vado a scuola.

giovedì 27 giugno 2013

A Strange Kind of Woman

Con "faccine", simboli e cose simili si potrebbe sostenere una conversazione intera. Anzi c'è chi lo fa senza problemi, quotidianamente. Studi recenti dimostrano che le femmine ne fanno un uso maggiore rispetto agli uomini. Sicuramente con le "faccine" si può rispondere affermativamente alla domanda:

Faccio in tempo a sentire l'assolo di Ritchie Blackmore che arriva tra poco?

Uto dialoga probabilmente con una donna mentre ascolta (neanche a farlo apposta, oppure sì) "A Strange Kind of Woman" dei Deep Purple. Non riesce a farne a meno di imbracciare la chitarra elettrica inesistente, scuotendo ritmicamente la testa come se avesse una massa di capelli lunghi e folti da gestire. Capelli come onde del mare, che accompagnano la svisata crescente di intensità verso l'inevitabile nota acuta "tenuta" come se fosse l'ultima azione sensata da compiere per l'intera umanità. Per lo meno per quella parte di umanità che ascoltava l'Heavy Metal.

:) ;)
Due punti e parentesi chiusa: va bene. Punto e virgola e parentesi chiusa: strizzatina d'occhio; condivido; non si può interrompere proprio adesso.

La mano sinistra scorre lungo il manico immaginario con le dita che si muovono a martelletto, avvicinandosi verso la mano destra che, tenendo tra pollice e indice un plettro immaginario, si muove appena ma con la consapevolezza che sta per pizzicare quella corda, il mi cantino. Sta per arrivare inesorabile quella nota che scaricherà tutta l'energia accumulata dall'assolo, supererà l'apice massimo del coinvolgimento, fino a far riprendere fiato, solo come un centometrista può fare appena dopo aver tagliato il nastro di arrivo.

La folta chioma, in realtà, sono pochi capelli bianchi e il fiato è talmente corto che di sicuro non appartiene ad un atleta. È Uto, ha ottanta anni, ha una quantità  di acciacchi che se dovesse elencarli su "Whatsupp" non gli basterebbe un abbonamento senza limiti di traffico internet.
Per chi ha ottanta anni non sono certo i megabyte che vengono a mancare ma è il tempo. Infatti è quello che ha appena chiesto tramite l'applicazione del proprio telefono. Lui non usa le "faccine" ma sa interpretarne il significato. D'altronde è già quasi un miracolo che un ottantenne utilizzi uno smartphone per comunicare.

Cavoli! È sempre come la prima volta, quando l'ho sentito, dal vivo... non ricordo dove.

Scrive con le mani tremanti, pigiando tre tasti per volta, contando sulla fortuna di azzeccare la lettera giusta.. e sul correttore automatico. Non sempre il correttore fa il proprio dovere e compaiono parole piuttosto stravaganti. Infatti invece di scrivere "vivo" la prima volta ha scritto "vino". Certo che un bicchiere di vino non sarebbe male...

...e per un bicchiere di vino?
>(
Faccina accilliata: "neanche a parlarne".

Merda! Devo proprio andare adesso?
>)
Sì perentorio ma cordiale nella risposta.

Ok... Va beh.. cmq mi sono divertito.
;)

Il giorno dopo si sarebbe commentato come Uto si fosse spento senza soffrire mentre ascoltava il proprio gruppo rock preferito. Tutto sommato un bel modo di andarsene.

domenica 26 maggio 2013

Riduttivo

Questa è la storia di un gigante e di un Re. Il gigante, buono e leale, viveva da solo vicino ad un regno prospero e sereno ormai da tanti anni, praticamente da sempre nei ricordi degli abitanti. In accordo con il Re, offriva loro protezione e sicurezza e per questo godeva di grande rispetto e devozione da parte di tutti gli abitanti che si prodigavano a fare in modo che al gigante non mancasse nulla. Gli abitanti del regno erano contenti di lavorare e faticare anche per il loro protettore anche se evitavano di uscire dai confini del regno per paura di affrontare l'ignoto senza la sicurezza della presenza del proprio amico grande e forte. Insomma, già a questo punto della storia si potrebbe aggiungere la tipica frase: "...e vissero felici e contenti", ma non è così.

Il Re e il gigante erano ovviamente in buoni rapporti e amavano entrambi conversare a lungo ma dopo tanti anni, avevano esaurito gli argomenti e così il Re invitò un forestiero che nessuno aveva mai visto o incontrato ma il Re sapeva che di tanto in tanto veniva a trovare il gigante. Così lasciò il messaggio di invito lungo il sentiero che portava alla casa del gigante e organizzò in modo che fosse una sorpresa.
Così fu. Durante una serata come tante in cui il gigante e il Re conversavano dei soliti argomenti, tuonò un vocione sulla soglia della porta di casa: - Heilà Giuanin! a sun bele sì. Aiè na festa? -.
Era un gigante anche lui! Ma certo! Il Re doveva immaginarselo, chi poteva frequentare un gigante senza essere a sua volta un gigante, oltre a se stesso ovviamente che però era un Re!
- Santi numi, Giuanin! ma chi a lè 'sto nanerrottolo? - Nonostante parlasse strano, d'altronde era un forestiero, il Re capì che si stava riferendo alla sua regale persona e diede un'occhiata al suo "grande" amico perché lo presentasse con tutti gli onori.
- Sua Altezza Serenissima Re di...-
- Sua "altezza"... Ah ah ah! Giuanin, ma se alè aut parei! - Lo interruppe il forestiero indicando l'altezza del Re con la mano aperta vicino alla propria anca.
- Sua altezza voglia perdonare le maniere di questo cialtrone.
- Cialtrun a mi? Sua "altezza" dovrebbe sapere che da quando i suoi antenati nani di un circo che passava  da qui decisero di stabilirsi in queste terre, il bisnonno di Giuanin, si fece mantenere da voi in cambio della sua "protezione" - Il forestiero parlò in modo chiaro e diretto, infatti il Re lo capì perfettamente e lanciò un'occhiata interrogativa a quello che credeva un gigante buono e leale. Giuanin cercò una giustificazione dicendo - Pensare che abbiamo approfittato di voi nani è riduttivo, Sire... - Il Re alzando la mano lo interruppe dicendo - A questo punto eviterei di parlare di qualsiasi cosa abbia a che vedere con le dimensioni. - e così dicendo se ne andò elegante e regale come sempre.

La comunità dei nani non lavorò più per mantenere il gigante che gigante non era. Decisero di cambiare vita e c'è chi dice di averli visti truccati da clown lavorare in un circo in giro per il mondo. Decisero di seguire gli insegnamenti del proprio Re che da quell'ultima conversazione con Giuanin, imparò che ciò che è realmente riduttivo è pensare di avere bisogno della protezione di qualcuno; che le dimensioni siano importanti per valutare le persone; che, nel dubbio, è meglio fare divertire i bambini, della propria altezza, piuttosto di avere a che fare con chi si crede un gigante. La parola "riduttivo" fu bandita dalla comunità dei nani e il loro motto divenne: "Nulla è riduttivo e tutto è relativo". Così facendo vissero realmente felici e contenti.

martedì 14 maggio 2013

Il mostro e la luna

- Sono il più grande! Vedo tutti dall'alto, non ho rivali. - Il mostro pensava tra se. Infatti era il più alto, il più grosso, il più moderno di tutti i palazzi e soprattutto tra i più brutti che si potevano vedere a Torino. Persino la Mole Antonelliana, poco lontano, sembrava piccola a confronto del mostro. Illuminato, scintillante, nonostante fosse ancora in costruzione, svettava sopra i tetti con le gru attaccate a lui come lo sono i pesci pilota attaccati allo squalo balena. Guardava la Mole Antonelliana con la stessa superficialità annoiata di chi guarda un oggetto vecchio, che non serve più: da buttare. La Mole, come una signora d'altri tempi, con la gonna ampia fino a terra e il collo lungo, affusolato, estremamente elegante, rimaneva impassibile. Appassionata ed esperta di cinema e sempre pronta a condividere la sua conoscenza con tanti piccoli esserini dei quali brulicava la città, interessati al cinema o semplicemente desiderosi di condividere con lei un punto di vista particolare, di una Torino antica, fatta di tetti rossi e viali alberati, ai piedi di giganti dalle chiome bianche di neve.


Da qualche tempo si era accorta del mostro di cemento che stava crescendo, che diventava sempre più imponente, arrogante.
- Tutti gli occhi sono puntati su di me. Sarò più alto dei giganti all'orizzonte e della luna che ho già quasi raggiunto! Sarò io ad illuminare tutta la città! - Il pensiero del mostro prese forma e il vento di quella sera di primavera lo portò fino alla luna, la quale, osservando quel "coso" attraverso una fessura di luce come se fosse socchiusa da una palpebra, senza scomporsi troppo, disse: - Fottiti! -

Il dialogo tra i due continuò in modo poco interessante ed edificante, sopratutto per una anziana signora come la Mole Antonelliana, la quale prese a chiacchierare con la sua vecchia amica Superga riguardo le ultime novità di Torino, sapendo bene che prima o poi Superga avrebbe raccontato di quando un aereo prestante e audace, in una notte tempestosa, le fece visita in modo irruente e impetuoso con conseguenze disastrose. Fu un amore breve ma di una intensità inaudita. Ancora oggi se ne parla e gli esserini che percorrono in lungo e in largo la città come formiche in un formicaio, scalano la collina di Superga con un trenino ad ingranaggi al posto delle ruote (ribattezzato "Dentiera") per celebrare e ricordare quella notte.

Poco prima che Superga iniziasse a raccontare dell'aereo, alzò un dito la Torre Littoria perché voleva intervenire nel dialogo tra Superga e la Mole ma fu subito interrotta da una delle due Torri Palatine (due vecchiette gemelle con tanti di quegli acciacchi che non si capisce come facessero ancora a stare dritte) sbottando con una domanda che non avrebbe dovuto fare: - Superga, ho sentito che c'hai la dentiera! Come ti trovi? -.

Superga offesa, sia per la questione della dentiera che per essere stata interrotta proprio mentre stava per raccontare del suo amore d'altri tempi, incominciò a brontolare riguardo le buone maniere, ecc. La Mole tornò a occuparsi di cinema e la Torre Littoria, con il suo ditone bloccato a mezz'aria, tornò a riflettere su quanto era poco apprezzata e considerata da tutti che la vedevano, da sempre, un po' fuori luogo e contesto. La luna, nel frattempo, stava lasciando il posto al sole e il mostro, si rese conto che nessuno faceva caso a lui. Nessuno lo stava considerando nonostante la dimensione e l'altezza. Non faceva paura o invidia a nessuno. Solo quegli insignificanti esserini alzavano la testa andando avanti e indietro nei corsi e nei viali sotto di lui per guardalo. Crebbe ancora un po' ma rimase per sempre un blocco di cemento inutilmente grande, costoso e semplicemente brutto, senza fare paura o invidia a nessuno. Fu così che Torino continuò a vivere serenamente la propria vita, abitata da vecchie signore e moderne brutture e anche da quei piccoli, strani, insignificanti e brulicanti esserini.

sabato 27 aprile 2013

Strategie

- Dobbiamo fare qualche cosa, non possiamo più aspettare. - Dice Paolo al suo amico Ludovico. Lo dice sottovoce, avvicinandosi al suo orecchio, non vuole che gli altri sentano.
- Non hai visto il messaggio di Anna riguardo Francesca?
- E' una femmina: manda messaggi a tutto il mondo pieni di faccine che ridono e piangono e non si capisce cosa vuole dire..
- Dobbiamo pensare...
Ludovico è intelligente, riflette sempre prima di agire o parlare. Sa come funzionano le cose, come va il mondo. Infatti ha un'idea.
- Scrivi a tutto il gruppo e proponi ad Anna di vederti, domani, qui.
Coinvolgere tutto il gruppo è sempre un buon approccio: succede sempre qualche cosa dopo. Qualcuno risponde, qualcun'altro si accoda al messaggio, in ogni caso il messaggio comincia a rimbalzare tra tutti e qualche cosa di buono, in mezzo a tante stronzate, si raccoglie sempre. Anna è l'amica di Francesca, il messaggio non passerà inosservato.
- Ma io non ho nessuna voglia di incontrare Anna... che le dico?
- Non la incontrerai. E' solo per fare in modo che Francesca legga il messaggio.
- Stiamo perdendo tempo, sta andando via, devo fare qualche cosa... - Paolo è impaziente.
A Ludovico non dispiace affatto essere coinvolto in queste situazioni e svolgere il ruolo di consigliere, stratega.

Paolo sfila dalla tasca l'attrezzo di comunicazione per eccellenza: lo "smart phone" e digita, utilizzando entrambi i pollici con precisione e velocità incredibile, il messaggio suggerito da Ludo.
A distanza di pochi metri risuona un leggero fischio, come un cinguettio proveniente dalla tasca di Francesca: messaggio arrivato. In realtà altri suoni arrivano da altre tasche, compresa quella di Anna, ma sembra che non abbiano sufficiente energia per arrivare alle orecchie di Paolo. Con tempi leggermente diversi tutti buttano un occhio sullo schermo del proprio apparecchio. Qualcuno accarezza con apparente distacco lo schermo del proprio telefonino.
- Anna non ha ancora risposto, ma Luisa ha già inviato un messaggio a tutti con una faccina che fa l'occhiolino. Vedi, tra poco succederà qualche cosa. - Dice Ludo a Paolo.
Contemporaneamente la tasca di Francesca continua a cinguettare. I messaggi si moltiplicano e i suoni dalle tasche di conseguenza. Gianni è vicino a Francesca e le appoggia un braccio sulla spalla. Paolo guarda Ludo in cerca di spiegazioni ma non le trova. La situazione precipita. Francesca e Gianni si allontanano camminando insieme. Paolo rimane immobile ma ad un certo punto avviene l'irreparabile.
- Francesca! Vuoi essere la mia ragazza? - Grida Paolo d'improvviso.
Ludo si porta una mano sugli occhi, sconsolato, quasi a voler sparire o, almeno, non vedere l'imbarazzo generale di tutti. Sembra che tutti i giardini si siano fermati. Un cane sembra rimanere con la zampa sollevata su una ruota di un SUV parcheggiato per metà sul marciapiede. I bambini sembrano congelati nell'atto di scendere lungo lo scivolo o appesi sui giochi a forma di casette con le rispettive madri pietrificate anche loro in una smorfia di paura che con Paolo e il suo grido non ha nulla a che fare, così intente nel trasmettere ai loro figli ansie e preoccupazioni legate anche solo al gesto di scivolare su uno scivolo. Tutti si sono fermati per qualche istante tranne Francesca che si gira per un attimo verso Paolo. Sul viso, per metà nascosto tra i capelli mossi dal gesto di girare la testa, un sorriso magnifico tutto per Paolo e tra le ciocche di capelli uno sguardo che attraversa l'aria e porta un messaggio chiaro come il cielo che illumina tutto e tutti: sì!

Il braccio di Gianni non è più sulla spalla di Francesca.
Un cinguettio sembra il segnale per fare ripartire tutto. I bimbi, dopo essersi sentiti per un attimo liberi, atterrano tra le braccia delle mamme; il cane piscia sulla ruota con piacere e soddisfazione e i ragazzini commentano: "che sfigato!"; "che figura!". Tra tutti i suoni che arrivano alle orecchie di Paolo, solo uno si fa strada: il cinguettio. È l'unico che lo interessa realmente. Lo sguardo di Paolo passa da una tasca all'altra fino a quando si alza verso il cielo e incrocia un ramo di un albero, sopra di lui. Un passero sta cinguettando e appena incrocia lo sguardo di Paolo, vola via. Paolo torna a guardare Francesca mentre si allontana, poi si gira verso il suo amico Ludo e gli tira un pugno sulla spalla: - È fatta amico mio! Devo tornare a casa se no, i miei mi rompono. A domani, Ludo.

martedì 16 aprile 2013

Democrazia

C'era una volta un mondo (forse sarebbe meglio dire ci sarà un tempo) nel quale si viveva sempre peggio: troppe città, troppe auto, pochi bambini felici, troppi vecchi musoni, pochi alberi e giardini, troppe fabbriche, pochi divertimenti, troppa scuola, troppi impegni.
A quel tempo il mondo era alquanto strano, c'erano tantissime automobili che viaggiavano in tutte le direzioni con pochissime persone a bordo e altrettante vetture che ogni giorno rimanevano parcheggiate inutilizzate. Invece di costruirne meno, inventarono delle macchine volanti per riempire oltre la terra, il cielo. Non era permesso volare oltre i tetti delle case: era vietato! I prati erano curati e belli ma non si potevano calpestare: vietato! Non si poteva regalare niente a nessuno: si doveva comprare o vendere tutto e nessuno aveva capito bene perché, era semplicemente vietato. Questo sistema qualcuno lo chiamava: "Economia" e bastavano alcune parole pronunciate da un signore in giacca e cravatta, per fare sparire un piatto di riso da sotto il naso di un bambino dalla parte opposta del mondo. Probabilmente si trattava di magia, non a caso quei signori li chiamavano maghi della finanza.

Il mondo era governato da un corvo nero che volava più alto di chiunque, semplicemente perché era vietato volare più in alto di lui. Si esprimeva come tutti i corvi: "cra cra cra". Molti si chiedevano perché fosse lui a governare e perché non si potesse volare più in alto di lui e anche Damiano se lo chiedeva. Damiano (gli amici lo chiamavano Demo) era un ragazzino stufo marcio di non poter correre sui prati e volare sopra i tetti delle case. Un giorno decise di rubare una macchina volante (rubare era consentito) e si librò nell'aria alzandosi da terra, sempre di più, fino ad arrivare in prossimità del tetto di una casa piuttosto alta, ma a lui non bastava. Si diresse con la macchina volante verso una casa ancora più alta, ma a lui non bastava. Cercò con lo sguardo un grattacelo, lo raggiunse volando sempre più in alto e con il cuore che batteva sempre più forte, ma a lui non bastava. Fu un attimo, ma fu sufficiente per cambiare la vita di Demo e non solo la sua. Accelerò al massimo la macchina volante, puntando semplicemente verso il cielo. Non sapeva bene dove andare, sicuramente lontano da lì. Un'altra cosa che non sapeva era di avere con se un passeggero nascosto, un clandestino: la zia del corvo nero, la quale non so come e non so perché, si trovava a bordo della macchina volante quando il coraggioso Demo la rubò. Non ci si deve stupire molto del fatto che parenti e amici del corvo nero si trovassero nei posti e nelle situazioni più disparate senza motivo e apparente giustificazione. In ogni caso Demo non poté fare più nulla quando la macchina volante, spinta da una forza più grande di qualsiasi motore (un giorno l'avrebbero chiamata "libertà") schizzò in alto oltre i tetti, lontano dai palazzi, dalle nuvole, dal cielo e da quel mondo verso chissà dove.

"Chissadove" era il nome di un pianeta piuttosto lontano dal nostro mondo e abitato da strani personaggi con due gambe, quattro braccia, otto occhi e una manciata di orecchie. Se non avessero avuto "solo" due gambe come noi, non si sarebbe capito in che direzione andassero. Invece sapevano benissimo in che direzione andare, con tutti quegli occhi e quelle orecchie, osservavano ogni cosa attorno a loro e ascoltavano qualsiasi discorso arrivasse alle loro tante orecchie. Le quattro braccia servivano per abbracciare chiunque incontravano sul proprio cammino ma anche tutti quelli che lasciavano dietro di loro. Osservavano, ascoltavano, camminavano e abbracciavano. Non avevano divieti e riuscivano a vivere felicemente.

Demo e la zia del corvo nero atterrarono su Chissadove e subito vennero abbracciati da quegli strani abitanti. Furono accolti come se fossero le personalità più importanti di tutto il pianeta, semplicemente perché erano diversi da loro e bisognosi di ospitalità. Demo si presentò. La zia del corvo nero disse semplicemente: "Cra" ed entrambi vennero accolti e ospitati a Chissadove. In loro onore cambiarono il nome del pianeta in: "Demo-Cra-Zia" per celebrare il coraggio di chi si era conquistato la propria libertà. Demo fu il primo di altre persone che, come lui, avevano voglia di volare in alto. Democrazia continuò ad essere un mondo piuttosto lontano dal nostro ma non così lontano da non poter essere raggiunto e fu così che quasi tutti vissero felici e contenti.